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Punti di vista: l’architettura umana di Giuseppe Tortato

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Una continua ricerca e riscoperta della bellezza istintuale compiuta attraverso la progettazione

Giuseppe Tortato, architetto riconosciuto e apprezzato a livello internazionale, è un esperto delle rigenerazioni urbane con un approccio olistico alla progettazione che mette al centro l’individuo e il suo benessere. Ciò che contraddistingue i suoi lavori nel mondo dell’architettura è la raffinata ricerca della bellezza, vero fil rouge e strumento attraverso il quale dare un significato a ogni progetto. La bellezza per l’architetto è riconducibile alla ricerca di un istinto ancestrale, tipico degli elementi naturali come la luce, l’aria, il verde, che si oppone con tutte le forze a quello rigido e globalizzato della contemporaneità. Da qui, la sua missione: quella di realizzare architetture “vere”  che siano in grado di dialogare con il contesto in cui sono immerse. Un’attitudine quella al dialogo con il contesto circostante che porta l’architetto ad ammettere la sua propensione nei confronti della progettazione di spazi urbani in quanto motore di riflessione e intervento diretto nel modo di vivere di una fascia più ampia.

Sono sempre stato attratto da ciò che non è normato

ma che diventa incredibilmente armonico e piacevole

Giuseppe Tortato

Foto: Moreno Maggi

Giuseppe Tortato architetti: un continuo dialogo con il contesto circostante

Dal profondo studio del contesto in cui vengono collocati gli edifici progettati – alla continua ricerca di un’armonia “che non per forza è sinonimo di simmetria” – nasce la cura del riflesso. Tortato infatti sottolinea l’importanza di questa inedita componente nella progettazione: secondo l’architetto il riflesso degli edifici circostanti diventa esso stesso un elemento da tenere in considerazione per instaurare quel tanto ricercato dialogo con il contesto. Progetti, passione e segreti del mestiere. Giuseppe Tortato ci ha raccontato la storia della sua passione…

Il sogno di diventare architetto è stata una costante nella sua vita oppure è frutto di una consapevolezza più matura?

Fin da tempi non sospetti, cioè 12-13 anni, dipingevo quadri ad olio con persone come soggetti principali o panorami particolari come stagni con gomme abbandonate. Dunque pensavo di fare il pittore o il fumettista, ma mio padre mi aveva minacciato dicendomi che non erano mestieri che garantivano una sicurezza economica. Tra le altre cose c’era anche l’architettura: presa in considerazione senza però conoscere la complessità della materia. La passione è iniziata dalla volontà di tradurre in modo pragmatico un estro artistico, per ingabbiarlo in qualcosa di più razionale.

Quanto ha influito Venezia, la sua città natale, nella sua carriera?

Credo moltissimo. Venezia ha sempre rappresentato un paragone importante rispetto a ciò che vedevo: ho sempre visto nella città l’anomalia rispetto alle altre; infatti Venezia rimane immune dalla supremazia dominante dell’automobile. È stata fonte d’ispirazione da un lato, come ambiente in cui vivere, dall’altro come confronto di bellezza, non tanto nei monumenti, ma nella ricerca e studio dell’armonia. Diciamo che è la base del mio pensiero.

Ha una personalità di riferimento? Qualcuno a cui si ispira? Un “idolo” – per usare termini estranei all’architettura – che l’ha spinta a voler intraprendere questa carriera?

Non ho mai avuto un idolo, anzi tutt’altro: per me l’idolo è sempre stato l’architettura diffusa, vernacolare. Bernard Rudofsky la definiva “archiettura senza architetti”, cioè il prodotto della cultura popolare. Mi ha sempre più affascinato un’aggregazione urbana del 1600 ma di case umili piuttosto che l’opera di Michelangelo, perché mi stupisce come persone appartenenti ad un certo periodo possano produrre delle architetture diffuse particolarmente gradevoli, piene di magia, che spesso l’archi-star non sa raggiungere. Mi è sempre piaciuto essere contro corrente notando come ad esempio la simmetria non fosse un valore diffuso: un edificio può avere una sua simmetria propria ma che viene meno nel momento in cui viene inserito in uno spazio urbano. L’esempio più lampante è Venezia: a prescindere dalla sua bellezza, ci sono palazzi che non creano simmetria ma armonia.

L’attitudine per il bello fuori dai canoni estetici classici è rimasta una costante della sua carriera o ha assunto altre forme nel tempo?

C’è sempre stata proprio perché, sin da bambino, sono sempre stato attratto da ciò che non è normato ma che diventa incredibilmente armonico e piacevole. E mi sono sempre chiesto come si potesse raggiungere una bellezza che non è necessariamente quella naturale, ma il prodotto dell’uomo che, però, tante volte sembra nascere da un sapere ancestrale, quasi incomprensibile. C’è sempre stata in me una ricerca quasi filosofica di un uomo vero e un mondo che non sia per forza legato ad un concetto di bello proprio di un preciso momento culturale.

Foto: Paolo Riolzi

 

Qual è la sua personale visione del mondo? E come la interpreta attraverso l’architettura?

Ho una visione del mondo fatto di uomini criceti che corrono intorno alla loro ruota: abbiamo una società che, con una comunicazione continua, ci spinge ad un mono-pensiero; ma percepisco anche una rivolta contro tale sistema. Quindi con le mie architetture voglio mettere al centro l’obiettivo di liberarci da quello che ci è imposto come strumento culturale (ci dicono cosa è bello, ciò che ci deve piacere). Puntando verso un’architettura istintiva ed istintuale dove prevale l’aspetto emotivo; cerco di bypassare il “lavaggio del cervello” che fin da bambini la cultura del politically correct ci impone. Conscio di quanto l’architettura cambi la nostra percezione, l’obiettivo è di ridare spazio al pensiero di ciascuno di noi, anche con i rischi che ciò comporta: ridonare ai sensi e all’istinto un ruolo dominante. Lo spazio in cui viviamo definisce molto del nostro pensiero.

La sua filosofia si potrebbe definire quasi umanistica, infatti mette al centro l’uomo e la natura, come si restituisce l’idea di sensibilità nei confronti della natura all’interno di uno spazio?

In questo momento storico la natura, gli alberi – in architettura – diventano quasi uno stereotipo, associato spesso ad un solo architetto, quando in realtà si ignora fosse un’usanza sin dai tempi di Babilonia. Questo per dire che è necessario distinguere quando è moda e quando, invece, è esigenza; ecco perché non sono propenso al verde “pettinato” ma sono più propenso al verde vero e semplice, come può essere un rosmarino ricadente, una pianta che restituisce un profumo particolare oppure piante che seguono il ciclo stagione, un elemento a cui non siamo più abituati visto che al supermercato troviamo tutto e sempre.

A proposito di moda: la questione della sostenibilità come si traduce e come concretamente si applica all’interno dei progetti? È una questione di marketing o realmente possibile costruire strutture sostenibili?

Da una parte è una moda, dall’altra è un’esigenza del mercato, perché la sostenibilità consente di avere dei livelli premianti. Ci sono infatti qualificazioni ottenibili che richiedono determinati requisiti e ciò è, da un lato, positivo perché spinge gli architetti ad una vera una sensibilità che magari non gli appartiene sull’aspetto della sostenibilità e dell’ambientale. Ma quando si parla di sostenibilità è più facile a dirsi che farsi: non è avere gli ingredienti ma saperli utilizzare nel modo corretto. Il mio obiettivo è quello di creare edifici in un’ottica di ciclo vitale circolare, infatti cerco di utilizzare materiali che invecchino bene. Ad esempio in un mio progetto – che non è stato realizzato – avevamo pensato all’utilizzo di mattoni creati con un fungo speciale, in modo che nel momento in cui l’edificio non fosse più stato utilizzabile, la struttura sarebbe diventata cibo per il territorio. Nella mia visione bisognerebbe avere edifici che funzionano bene già nella struttura, non solo a livello impiantistico, che sfruttino i gradienti termici, che si autoventilano e che siano fatti di materiali il cui processo di decadimento avvenga quasi naturalmente.

 

Foto: Moreno Maggi

Nei in suoi progetti come Fibercloud & Faswteb HQ o NGC Medical Headquarter si vede come l’architettura si integra perfettamente con l’illuminotecnica, qual è la sua personale definizione di luce e che ruolo gioco all’interno della progettazione?

Non vorrei dare una scala di valori ma la luce è tutto. È l’elemento fondamentale per percepire il mondo. Nell’architettura oggi si fanno degli studi sul ciclo di luce circadiano per cui l’illuminazione degli ambienti segue l’andamento di quella solare in modo da stimolare le persone, in quanto la colorazione della luce influisce sullo stato d’animo. La mia prima tesi all’università era il progetto di una casa i cui spazi venissero definiti solo dalle situazioni luminose: quindi non attraverso l’uso di pareti ma da bucature sulle pareti esterne in modo da creare, in base ad esse, situazioni diverse per gli ambienti. Quindi il concetto di creare ambienti in cui è la luce a definire la vita all’interno degli spazi è la prima cosa, poi vengono tutti gli altri sensi. In qualsiasi mio progetto parto dallo studio della luce e poi – una cosa che fanno in pochi – del riflesso degli edifici circostanti. Sono banalità ma sono espedienti che noi utilizziamo quando progettiamo.

La luce dona vita agli edifici anche quando sono vuoti. Nel caso specifico del Fibercloud & Faswteb HQ, il led blu sembra quasi rappresentare le vene dell’edificio, qual era il ruolo che voleva attribuirgli?

Il led da un lato giustamente rappresenta le vene, un voler donare una vita propria all’edificio anche di notte, dall’altro rappresenta la volontà di dialogare con il contesto. Dunque non fare edifici chiusi in se stessi ma che in diversi momenti della giornata diventano qualcosa di diverso: lì finché non cala la notte nessuno si accorge della scultura luminosa. Quindi c’è anche il concetto della sorpresa, infatti di giorno la piazza è illuminata e vissuta in un certo modo, mentre di sera, la presenza della scultura blu, ha fatto sì che le persone si sedessero sulle panchine e diventasse dunque una specie di falò, di elemento aggregatore. Inoltre a proposito del discorso precedente, la luce blu si riflette sugli ambienti circostanti. Cose di questo genere le abbiamo fatte altre volte, in un intervento fatto, le pareti erano tagliate come in un codice a barre e quando si accendevano le luci di notte l’edificio cambiava completamente aspetto. Per noi gli edifici devono dialogare con il contesto urbano in cui sono immersi, diventandone parte integrante, in modo che le persone riconoscano anche i luoghi.

La presenza del led conduce ad una riflessione: come si integra, oggi, l’architettura con la tecnologia? Lei trova la sintesi design-tecnologia funzionale o un’ondata destinata ad estinguersi?

Dal punto di vista della luce stiamo arrivando ad un livello altissimo: c’è stato un momento in cui la luce poteva solo essere abbagliante – come nel classico ufficio anni ’60 con neon che rendevano la vita difficile a chi ci lavorava -, invece oggi poter variare all’infinito la gradazione di colore della luce è una delle cose che mi affascina di più. Soprattutto perché nel caso dei led si consuma pochissimo, quindi si ha l’idea di avere un’infinità di possibilità con poco spreco. La tecnologia non si può dimenticare in quanto componente molto richiesta, ma allo stesso tempo mi piace pensare che ci siano ambienti dove per un attimo la tecnologia ti abbandona (in senso positivo). Stiamo lavorando ad un ristorante, Il Refettorio, a Venezia, la cui pavimentazione è fatta in cotto azzurro di una fornace vicino Napoli che funziona dall’anno 1000. Lì ci piacerebbe che nel momento in cui le persone entrano nel ristorante avessero il coraggio di lasciare il cellulare all’ingresso e potessero dedicarsi all’esperienza. Io di certo non nego la tecnologia però bisogna saperci rinunciare ogni tanto, soprattutto quando non è strettamente necessario.

Foto: Moreno Maggi

Visto che lei non progetta solo grandi edifici ma si occupa anche di appartamenti privati, è ancora ampia la richiesta della domotica? 

Sono quasi 20 anni che la richiedono, soprattutto quando si tratta di appartamenti e residenze di una certa importanza. Alla fine però il rapporto con la domotica è decisamente conflittuale perché da un lato ti semplifica la vita dall’altro te la complica. A me quello che non è mai piaciuto è l’approccio ad essa come fosse un giocattolo: capisco che tutte le possibilità possano risultare spettacolari però le trovo un po’ fini a se stesse. Poi ovviamente ci sono situazioni dove ha una sua legittimità. Dal punto di vista pragmatico diventa molto utile ma quando diventa un giochino da luna park non è più così interessante, soprattutto perché non è quello il suo scopo.

Lei ha progettato luoghi d’incontro pubblici così come appartamenti privati, come è cambiata la concezione dello spazio dopo la pandemia, secondo lei?

Gli spazi di lavoro sono completamente cambiati come utilizzo, dunque il fatto che l’ambiente di lavoro diventi un luogo attrattivo – e non una catena di montaggio – cambia anche il modo di pensare i luoghi. Per quanto riguarda la parte residenziale e di territorio urbano, ci sono stati grandi cambiamenti: nella progettazione ciò che prima poteva sembrare appetibile ed interessante in alcuni casi non lo è stato più. Ad esempio un monolocale con una sola finestra oggi è percepito meno positivamente rispetto ad un tempo. Quindi anche il fatto che un edificio sia inserito in un contesto urbano con una vitalità dominante con infrastrutture e attività ha un impatto totalmente diverso. Sta ritornando un po’ il concetto di città dei 15 minuti che non era altro che quello utilizzato nei primi del ‘900 per cui nel momento in cui uscivi di casa avevi tutto molto vicino; una concezione dello spazio che è venuta meno con l’avvento dell’automobile. L’obiettivo sarebbe dunque quello di creare delle isole connesse e autosufficienti.

Sara Radegonda

Foto: Moreno Maggi

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